Mi chiamo Ruggero Passeri, sono nato a Roma il 13 marzo di 66 anni fa.
Non sono un fotografo, sono un tale che scatta fotografie.

Venerdi 13 maggio 2016 alle h 17.30 presso l’Ostello di Magliano Sabina in occasione di Mostre Diffuse [Fotografia] per Incontri con gli Autori,  Ruggero Passeri parlerà del lavoro presentato a Magliano Sabina e della sua passione fotografica.

Intendo dire con questo che non ho mai svolto la professione di fotografo, non ho mai seguito corsi di studio per esserlo,  e non saprei neppure spiegare con esattezza perché fotografo. Ho sempre avuto poco tempo e pochi mezzi per portare avanti questa passione (da passio-onis, terza declinazione, in latino: passione, sofferenza, partecipazione, patimento) . Ho fatto molte altre cose tuttavia: l’ufficiale in aeronautica ( ma non mi piace comandare), il professore (ma sapevo di non sapere), il broker sul mercato monetario (ma non ho una grande ammirazione per il denaro, né per chi ne possiede molto), e l’impiegato ( che non vuol dire un granchè, ma bisogna pur campare).

Per giunta mi sono dato da fare , come tanti,  a sposarmi e far figli,  e questo può fare capire quanto restasse a disposizione per poter imitare Cartier–Bresson…

In ogni caso, le mie foto sono apparse in giro: Nel 1983 ho presentato per la prima volta in pubblico il mio lavoro alla storica galleria “Il Fotogramma” che era allora in Via  di Ripetta, a Roma. Per alcuni anni, dopo, per motivi più o meno seri,  non ho più scattato foto. Intorno al 1994 ho avuto in regalo per natale un apparecchio fotografico ( li avevo venduti tutti) d ho ripreso a fotografare, e successivamente a fare qualche mostra. Nel frattempo era scaturita nella mia povera testa l’idea di registrare attraverso la fotografia l’aspetto fisico degli artisti, in una specie di ricerca fisiognomica alla Lombroso, per capire cosa rendesse tale l’intellettuale, l’uomo di cultura. Così, tramite un’amica artista, ho iniziato a fotografare artisti. Chiedevo un appuntamento, dicendo che collezionavo ritratti di artisti, mi facevo ricevere a casa o nel loro studio (non ne ho mai posseduto uno) e nel tempo di presentarsi  e (non sempre) prendere un caffè, inventavo una qualche inquadratura che rendesse l’idea della persona. Praticamente un furto con destrezza. Difficile ma educativo. Non ho trovato alcuna regola fisiognomica, per fortuna, ma è stata comunque un’utile ricerca, perché con il tempo ho compreso che non è possibile fare un ritratto ad un qualsiasi soggetto umano senza  prima stabilire con esso un rapporto e un dialogo.

Le foto degli artisti (ma anche intellettuali scrittori, fotografi, etc) alla fine sono diventate numerose, sono apparse su un numero della rivista “fotografare”, e sono state accolte al Museo dell’ Arte, dell’ Informazione e della Fotografia di Senigallia, che ha organizzato una mostra nel 2008.

Ho pubblicato fotografie e reportages anche su periodi italiani e altre riviste di fotografia. Ho viaggiato (non molto), in India, Cina, Inghilterra, Arabia Saudita, Spagna, Francia, Olanda, etc.

Ho scattato foto in tutti questi luoghi, ma senza la consapevolezza e la volontà di preparare dei reportages. Non ho contatti con il mondo professionale, non so mai a chi rivolgermi, ho un grande imbarazzo nel bussare alla porta di qualcuno per chiedere favori. Di sicuro non sono un buon esempio di auto-promozione.

Se dovessi classificare il mio lavoro di fotografia per importanza, credo  che finirei comunque per mettere al primo posto Kaputmundi.  E’ un nome forse banale, costruito mettendo insieme il classico “Caput Mundi” che contraddistingueva Roma con il termine tedesco “Kaputt”, che sta per “rotto, guasto”. La mia ricerca fotografica su Roma è partita, una decina di anni fa, dalla sensazione di smarrimento che la città in cui vivo mi dà.  C’è qualcosa di irreale a Roma, forse è la sovrapposizione del patrimonio di storia e antichità con il caos metropolitano; si scontrano, a Roma, la matrice fortissima del mondo cattolico-vaticano con il cronico cinismo della politica e della società.
L’antico si impasta con il nuovo, i comportamenti scivolano progressivamente nel ridicolo, è il profano ancora più profano e potendo persino pacchiano, il nuovo secolo che avanza e vince tutto. La volgarità trionfa.

Tutto questo ho cercato di dirlo attraverso le mie immagini, attraversando questa città in lunghissimi pellegrinaggi senza meta, passando intere giornate andando in giro e guardandomi intorno, in una specie di appostamento perenne. Qualcuno ha sostenuto che Kaputmundi  non segue un unico filone, e in questo manca di unità. Non lo so, è possibile. Io stesso manco di unità, e ne sono consapevole. Un giorno qualcosa mi fa sorridere, un giorno qualcosa mi indigna. Le mie foto, credo, si stanno facendo lentamente più chiuse, e forse la stessa cosa capita anche a me. Comincio a non sorridere più, nel disordine delle cose e degli uomini sento il sapore di piccole tragedie nascoste, fotografo attimi spezzati, situazioni che non mi sono chiare e che non voglio chiarire. A volte mi chiedo se valga la pena di fotografare. La scienza ci ha rivelato di recente verità sconvolgenti sull’universo. Hanno detto che lo spazio si piega, che il tempo è anch’esso flessibile, che la nostra vita e il nostro pianeta poggiano su superfici instabili come materassi a molle. Ho letto che, probabilmente, arriveremo a comprendere che il tempo è semplicemente una categoria di funzionamento del nostro cervello, e che, nella realtà fisica, l’universo è semplicemente senza tempo. Un giorno, prima o poi,  capiremo inesorabilmente qualcosa di basilare su di noi, con il nostro potere, con il denaro, i vestiti alla moda, gli amori impossibili, i figli un po’ estranei, le rate da pagare, l’arte, la letteratura, l’onore, le fotografie in bianco e nero e quelle a colore: Tutti noi, dicevo,  ci scopriremo ad essere invenzioni insignificanti e momentanee in uno spazio immenso e molle. Saremo definitivamente ridicoli.

Ma nel frattempo scatterò fotografie. Sarà bellissimo, inquadrare e  scattare sospesi in uno spazio-tempo molle come un budino!

Scherzi a parte, concludo con qualche accenno tecnico per coloro ai quali potesse interessare. Ho iniziato a fotografare all’età di tredici anni, usando una Comet Bencini  con la messa a fuoco a simboli e un solo tempo di scatto. Poi ho usato di tutto e di più, passando da macchine a pellicola dell’Est Europa alle Pentax degli anni 70. Ho usato le Zenza Bronica medio formato, le Canon, le Nikon. Con il digitale ho avuto subito un approccio entusiastico, perché mi semplificava il lavoro e soprattutto riduceva i costi in maniera impressionante. Con gli anni e un po’ di calma ho capito che mi serve molto poco, purchè sia di buona qualità, e oggi quasi tutto ciò che è sul mercato è di buona qualità. Attualmente possiedo un solo apparecchio fotografico con tre obiettivi. Non uso mai il treppiede, non scatto mai quando il sole è alto, cerco di non scattare troppe foto perché è sostanzialmente inutile. Non ho regole inviolabili, ma confesso di detestare le fotografie storte  gli effetti speciali e gli obiettivi fish-eye.  Dal punto di vista umano, non sono capace di  fotografare chi è a disagio o soffre, e mi irritano molto i giovani allievi delle scuole di fotogiornalismo che fanno a gara nel fotografare nomadi, diseredati,  senzatetto e trans.  Lo considero puro sciacallaggio, e basta. Per il resto, diciamo che si può sempre provare.